Eraclito e l’elefante e la via dell’acqua di Antonio Sgroi

 

Si potrebbe chiedere: “Ma che hanno in comune un pachiderma e un filosofo greco con una nuova bella scultura italiana di oggigiorno?.” Bella domanda: mi auguro che il caro lettore trovi la risposta altrettanto bella. C’è una parabola che risale dall’India antica: l’elefante e i sei ciechi. È una favola che parla della nostra società attuale: un avviso sui danni e pericoli dell’internet e di condurre la propria vita sempre tramite lo Zoom e i social … Tanti anni fa, in un piccolo villaggio in India, un gruppo di sei ciechi sentì che uno stranissimo animale, chiamato elefante, era arrivato lì con un circo errante, ma nessuno di loro era a conoscenza della sua grandezza e forma. Per curiosità, i sei ciechi si dissero fra di loro “Andiamo a controllarlo e conoscerlo al tocco, è questo il nostro talento speciale.” Così scesero nell’unica piazzetta del villaggio a trovare la bestia sconosciuta a loro. L’allenatore dell’elefante gentilmente permise loro di toccarlo al fin di provare a capire cosa fosse. La mano del primo cieco era caduta sulla proboscide, dunque lui disse: “Quest’animale è come un grosso serpente”. Il secondo cieco, la cui mano sfiorava l’orecchio dichiarò invece la forma dell’essere sembrava un ventaglio enorme. Quanto al terzo cieco, la cui mano palpeggiava la sua gamba, pensò che l’elefante fosse come un tronco d’albero. Il quarto cieco, che mise la mano su un fianco dell’animale, disse che l’elefante era come uno scudo gigantesco o un muro curvato. Il quinto, che stava toccando la coda, l’aveva descritta come una corda. L’ultimo cieco carezzava la sua zanna dichiarando che l’elefante era qualcosa di duro e liscio come una lancia. E’ in tal modo che i sei ciechi si misero a litigare fra loro fino a fare una zuffa in piazza, nonostante che nessuno di loro avesse ragione. Facendo una recensione virtuale su una nuova scultura, invece di farla di persona, mi fa sentire come uno di questi ciechi. Seppure abbia visionato tante foto dell’opera di Antonio Sgroi, La via dell’acqua, infine queste sono meri pezzi del puzzle, visto che finora non ho provato l’esperienza integrale della statua. Per capire davvero un’opera d’arte bisogna stare in situ con essa. Com’è l’ambiente: un’ angolino polveroso e scuro? Al centro di una bella stanza su un piedistallo ben illuminato? Sta da sola, la statua, oppure soffocata in una sala zeppa di troppe opere? Sta incastrata in una nicchia, visibile da un angolo solo? O si può girare attorno all’opera permettendoti di vederla a 360°? La statua è statica, oppure fa anamorfosi? (cioè cambia secondo i movimenti dello spettatore, tipo le sculture del Bernini che si trovano nella Galleria Borghese). Anche se controlliamo centinaia di foto e riproduzioni dell’opera sarà sempre impossibile sperimentare e capire l’esperienza di stare di fronte alla stessa arte. Però, come dice il proverbio arabo, “Il cane abbaia ma la carovana va avanti”. Vuol dire che, anche se non mi piace affatto giudicare un’opera che ho visto soltanto virtualmente, oggi come oggi, durante il regno di Covid, mentre Corona indossa la corona, devo arrendermi al fatto che, per ora, così si fa. Dunque, per rispetto di questo grande artista, cercherò in questa recensione di fare il meglio per condividere il senso di questa scultura col pubblico. Per capire l’arte bisogna, a prescindere, sapere qualcosa sull’artista stesso. Antonio Sgroi è uno scultore nato. Fin da piccolo, lui era affascinato dall’arte tridimensionale. Certo, faceva schizzi con matita e con i colori, ma il suo cuore rimaneva e rimane sempre con il marmo, con la creta e con il gesso. Studiò al Liceo artistico e all’Accademia di Belle Arti di Bologna, laddove conobbe le opere di Michelangelo, Bernini, Canova, Rodin et alia, dall’epoca rinascimentale e barocca fino ai giorni nostri. Antonio fece le sue ossa tagliando e scolpendo il famoso marmo di Carrara e Pietrasanta. Nonostante la sua grande passione per l’arte classica non si limita ad uno stile o ad un periodo solo. Utilizzando attrezzi di una volta – scalpello, mazzetta, subbia in acciaio, ecc. – ottiene dei risultati strepitosi. Sgroi dimostra la sua padronanza di lavorare il marmo ma con un simbolismo ed uno stile impressionante tutto suo. La sua carriera è un nesso tra Michelangelo e modernità. Un bell’esempio di questa fusione artistica sarà il suo bozzetto in terracotta chiamato La Teoria del Sacro (1998, progettata per il Giubileo del 2000 al Pantheon di Roma). Guardandolo da sinistra a destra, si vede un centauro (la creatura mitologica, non Valentino Rossi) paragonabile a qualsiasi statua antica, che tiene in mano una specie di ponte di stoffa. Antonio Sgroi.

 

 La Teoria del Sacro, bozzetto per scultura in terracotta,.cm 500 circa. Cremonini Group – property

 

 Questa lunga tela – omaggio al Bernini, il maestro che faceva assomigliare la pietra a un tessuto morbido e leggero – conduce lo sguardo ad un altro personaggio mitico: il dio Pan, sdraiato per terra. Però, grazie alla padronanza di anamorfosi mostrata qua da Sgroi, se si guarda col punto di vista del ragazzino da destra a sinistra, questo satiro – molto ambiguo – sembra essere un satiro femminile in una posa erotica, con le gambe divaricate. La stoffa sembra emergere dall’inguine di lei ma anche dall’inguine di lui a sinistra, un parto mistico condiviso. Si ricorda che, secondo la tradizione, Pan morì nello stesso momento in cui nacque il Cristianesimo. Dunque, il ragazzo potrebbe significare il Bambin Gesù, come la Chiesa interpreta Isaia 11:6: “… e un bambino li condurrà …”. Infatti, a destra, il ragazzo sta isolato dalle altre figure, su una rampa in discesa verso una palla fermata su un disegno come una scaletta di croci, una visione molto moderna che fa venire in menta l’arte metafisica di Giorgio de Chirico. Simbolicamente, l’unione dell’arte classica con l’arte moderna è un parto artistico di uno stile nuovo nelle opere di Sgroi.

 

 Antonio Sgroi, La Teoria del Sacro, particolare del bozzetto per scultura in terracotta,.cm 500 circa. Cremonini Group – property.

 

 Un altro esempio, prima di rivolgersi alla nuova scultura de “La Via dell’Acqua”: nel 2011, alla 54° Biennale di Venezia International Art Exhibition – Padiglione Italiano, venne esposto “Ago” (particolare di una opera di più vasta composizione) una scultura in marmo bianco di Carrara.

 

 Antonio Sgroi, Ago, marmo bianco di Carrara, cm 700 circa Cremonini Group – property.

 

 Dalla foto si vede un ago bianco di marmo al centro di un cortile – anzi, un chiostro – scuro e vuoto. Infatti, non si vede l’edificio, soltanto il buio. Non si sa che c’era una specie di colonna sonora, il suono del martello che batte lo scalpello sul marmo. È il battito eterno del cuore dello scultore. Poi, non si sente dalla foto il senso della grandezza di questo ago molto semplice. È alto ben 7 metri … nel buio di quel chiostro, l’Ago sembra più un grattacielo e infine, è molto probabile che non si noti un solo spermatozoo scendere dentro la cruna; il mondo celeste che scende per impregnare il mondo terrestre. Adesso si può parlare dell’opera più recente di Sgroi, La Via dell’Acqua. Il soggetto della statua è la signora Tina Cremonini, matriarca della famiglia Cremonini nella provincia di Modena. Certo che una grande parte del successo di questa famiglia è dovuto a mamma Tina; però, invece di produrre un ritratto banale della signora, l’artista ha realizzato un omaggio allo spirito oppure all’essenza di tale donna. Antonio Sgroi, La Via dell’Acqua, marmo di Carrara, cm 200 circa Si ricorda che le statue funebri di Lorenzo di Piero e Giuliano di Lorenzo nella Sagrestia Nuova di Michelangelo non hanno niente a che fare con i veri tratti somatici dei due soggetti. Anche il famosissimo Pensatore di Rodin, fu dapprima destinato ad essere un ritratto di Dante Alighieri sorvegliante il suo Cancello dell’inferno. Poi, Rodin cambiò l’idea e fece l’immagine iconica dell’anima – l’essenza – del poeta. Questa spiegazione non è una mia fantasia. In genere, non abbiamo sotto mano il pensiero dell’artista scomparso secoli fa sul vero significato o simbolismo di un’opera d’arte. Siamo molto fortunati, però, di averne in questo caso una spiegazione dal proprio creatore, lo scultore vivente Antonio Sgroi stesso. Lui scrive: “Questa figura che è un omaggio a Tina Cremonini non è un ritratto bensì una sinergia di forme che la portano nel tempo in tanti momenti delle sue fattezze corporali … Una espressione profonda dell’essenza di questa persona. La Tina cammina su un velo d’acqua simbolo della purezza della madre. Acqua che sembra sgorgare dal suo corpo e allo stesso tempo è lei che nasce dall’acqua simbolo della limpidezza, della purezza di questa persona. Come una moderna sacerdotessa offre con le sue mani la melagrana simbolo di fertilità, unione, abbondanza e con la sua forma sobria allude alla ricchezza della madre a un ventre materno turgido in gravidanza, che contiene i suoi semi e cioè i figli e la famiglia … La conchiglia appoggiata sul velo d’acqua, che ho modellato in terracotta, richiama con la sua forma il genitale femminile perché la vita viene dall’acqua e dalla madre. La presenza della conchiglia riesce così a trasfigurare l’identità al modellato marmoreo, perché il tulle sembra un filamento di alghe marine o un agglomerato di meduse trasparenti …”

 Antonio Sgroi, La Via dell’Acqua,marmo di Carrara, cm 200 circa, particolare

 Però, devo andare oltre questo brano; non perché non mi fido nella spiegazione del proprio creatore dell’opera, ma perché ho imparato dalle mie esperienze che spesso ci sono tanti livelli di significato di un’opera, perfino all’insaputa dell’artista. In questo caso, sappiamo benissimo che Sgroi è uno studioso appassionato della storia dell’arte. Come succede in tanti casi, è molto verosimile che lo scultore abbia incluso alcuni simboli nella statua inconsciamente dalla fonte. Non si tratta di telepatia o invenzione da parte mia, ma soltanto di consapevolezza della formazione, storia personale, cultura e carattere dell’artista. Michelangelo disse: “Non si dipinge con le mani, ma invece col cervello.” Si potrebbe dire la medesima cosa sullo storico o critico dell’arte, ed anche sull’osservatore chiunque. Se si guarda un’opera soltanto con gli occhi, non si capirà un gran che. Ma, con un minimo di ricerca, si possono scoprire altri messaggi, a volte provenienti dall’inconscio di quello che l’ha fatta. Ad esempio, capita spesso che un compositore intrecci melodie in una sinfonia o una canzone pensando di creare qualcosa inedita e trovare dopo tanti anni che si tratta di una filastrocca o ninnananna dalla sua gioventù. Così si può dedurre il messaggio sfaccettato della statua La Via dell’Acqua, che potrebbe sorprendere perfino Antonio Sgroi. Si deve indagare: come mai una conchiglia? Un melograno? Un velo d’acqua? La gonna e la posa classica di una sacerdotessa? Sono queste domande che ci porteranno a comprendere il filo conduttore dell’opera. Riguardo alla conchiglia, lo scultore è assolutamente corretto quando scrive che il suo simbolismo basilare è da sempre la vulva, il centro della forza femminile. Ci sono due altri fatti da tenere in mente, però. Prima di tutto, è molto importante ricordare che l’artista è nato e cresciuto in un paese, una cultura, un ambiente italiano e cattolico. Senza dubbio che da piccolo, Antonio, era esposto e permeato dal simbolismo della Chiesa. Nel mondo dell’arte cristiano, la conchiglia è il contrario del senso sessuale. Invece, la conchiglia divenne il simbolo della purezza. È perciò in tante scene di Giovanni che battezza Gesù si vede l’acqua purificante versata in testa da una conchiglia nella mano del Battista. Secoli dopo, i pellegrini, tornando dal sentiero di Santiago di Compostela portavano con loro una conchiglia, simbolo dell’acqua pura di Compostela, la prova che erano riusciti a raggiungere la meta spirituale. Nel 1602, Caravaggio fece la figura anacronistica di un pellegrino con la conchiglia sul petto nel quadro La Cena ad Emmaus. È sicuro che il giovane Sgroi abbia visto queste immagini che vennero incise nella sua memoria. Molto simile il caso del melograno. Nel vocabolario artistico della Chiesa cattolica, questa frutta divenne il simbolo doc, non della fertilità ma della Passione di Gesù. Perché? Perché quando il melograno viene tagliato, il suo succo assomiglia tanto al sangue. Quando il soggetto, la sig.ra Cremonini offre allo spettatore il melograno, non è un mero messaggio di fare figli (lei e il marito Luigi ne hanno portato alla luce 4), ma anche un consiglio di seguire il proprio sogno con Passione, anche se il sentiero sarà una catena di sofferenze. Il viso della donna nella scultura non è di una che non abbia subito qualche guaio, ma il viso di una persona di grande intelligenza addirittura grazie a tutte le sfide superate nella vita. Ogni studente dell’arte italiana per forza deve studiare anche la storia dell’architettura. Nello stile greco-romano classico, c’è un elemento che sposa l’architettura con la scultura: la cariatide, di solito una bella donna in piedi che funge pure come una colonna o un pilastro. Vista la posa molto dritta di Tina Cremonini in questa statua, è palese che l’artista riteneva nel subconscio l’immagine di una cariatide. Come mai mi permetto una conclusione tale? Perché si sa benissimo che il tema delle opere di Antonio Sgroi è senza dubbio “il Sacro e la Sacralità.” Questo è sempre l’indizio celato dietro le quinte nella sua scultura. Non ci sorprende se ci sono sacerdotesse, creature mistiche della mitologia, conchiglie e melograni nelle sue creazioni. E siamo arrivati al simbolo potente dell’acqua. Come mai il titolo dell’opera non è Tina, o la donna Cremonini? Perché il vero protagonista in quest’opera è il Tempo – Il Tempo e la Fede – sia in Dio che in te stesso. Il poeta Jorge Louis Borges scrisse: “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume …” L’acqua dal Passato serve a portarci al Futuro. L’acqua che ci punisce anche ci pulisce. Una vita dedicata al Cielo, alla famiglia, agli affari ed al futuro è una vita ben vissuta, come la vita di Tina Cremonini. Tutti questi livelli di simbologie e spiegazioni sono, secondo me, la prova di una vera e propria opera d’arte. L’Arte con la A maiuscola non è fatta per un’occhiata rapida al volo, ma piuttosto per venire guardata, studiata e goduta ancora ed ancora ed ancora. E questo fatto ci porta finalmente ad Eraclito, come ho promesso. Quel filosofo greco antico disse: «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume.» Se siamo sensibili e consapevoli degli indizi e simboli, non si può vedere due volte la medesima opera d’arte. Mi auguro che, dopo che l’acqua del Tempo abbia portato via il maledetto virus, ci troveremo di persona davanti a questa scultura, per capire anche meglio il talento dell’artista Antonio Sgroi.

                                                                                                                                                                                 Roy Doliner